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Gv 19,25-42;20,11-18

Hai sete?

Contesto

La passione raccontata dall'evangelista Giovanni nei capitoli 18 e 19, non è un racconto puramente storico, ma è soprattutto una interpretazione teologica della comunità giovannea come frutto del suo cammino di fede, tanto da rendere il racconto diverso da quello presentato dai vangeli sinottici. Lo scopo di Giovanni non è teso a commuovere il lettore con la descrizione della sofferenza di Gesù crocifisso, ma nel far comprendere che nella passione di Gesù si manifesta il vero volto del Padre. Pertanto, Giovanni non presenta Gesù come una vittima condotta al patibolo, ma come il campione dell'amore, la nuova scrittura, la parola fatta carne, il pieno compimento delle speranze dell’antica alleanza.

Sin dall'inizio del suo vangelo Giovanni considera Gesù come pienezza di vita e di luce (“In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”, Gv 1,4); in tutta la sua narrazione egli presenta un crescendo di questa vita e di questa luce “che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), attraverso opere che restituiscono, comunicano e arricchiscono la vita di ogni persona, indipendentemente dalla sua condizione morale o religiosa, con l'unico scopo di liberare definitivamente gli uomini dal dominio delle tenebre-morte.

Però il crescendo di luce sarà a un certo momento così accecante da essere intollerabile per quelli che vivono nelle tenebre (Gv 3,20), cioè, i capi re­ligiosi. Saranno loro infatti che non sopporteranno l’in­tensità della luce che emana da Gesù, l’uomo-Dio, “Luce del mondo” (Gv 8,12; 9,5), e urleranno a Pilato: “Via, via,, Crocifiggilo!” (Gv 19,15). E così, “Colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29), viene tolto dal mondo dai complici di questo peccato; tutto questo, allora, ci fa comprendere che il Figlio di Dio non è morto perché questa era la volontà del Padre, assetato di sangue umano, ma per la convenienza della casta sacerdotale al potere (Gv 11,50). Gesù muore per aver fatto sua la causa di tantissime persone assetate di giustizia, pace, uguaglianza e dignità.

Per Giovanni, in Gesù, che è l’Uomo-Dio, si manifesta la pie­nezza dell’amore del Padre, un Dio-Amore che non è un rivale dell’essere umano, ma suo alleato; che non lo domina, ma lo potenzia; che non lo assorbe, ma si fonde con lui per comunicargli la pienezza della sua vita divina (Gv 17,22); Gesù ci fa conoscere un Dio che non chiede offerte, perché è lui che si offre (Gv 4,10); che non vuole essere servito, perché è lui che serve noi (Gv 13,14); che chiede un nuovo rapporto con lui, non già come servi, ma come figli e figlie dello stesso Padre.

Purtroppo però, questa offerta non verrà accolta, e il Cristo, tanto atteso, sarà rifiutato, contestato, calunniato e infine assassinato (“Venne tra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto”, Gv 1,11). Ma Gesù è risorto, e la comunità giovannea s'incaricherà di raccontare alcuni SEGNI realizzati da Gesù, e che noi abbiamo visto durante tutto l'anno.

La passione, morte e risurrezione di Gesù, diventa, allora, il segno per eccellenza, il segno che da senso a tutto ciò che viene riportato nel vangelo, il segno che invita a ogni uomo e donna, a collaborare attivamente con Colui che ha detto: “Io ho vinto il mondo” (Gv 16,33), perché la vita sarà sempre più forte della morte.

Per la nostra riflessione, quindi, ci soffermeremo al momento più fulgido della passione e morte di Gesù (Gv 19, 25-42), per poi passare all'incontro di Maria di Màgdala con Gesù risorto (Gv 20,11-18).

La maternità spirituale di Maria (Gv 19,25b-27)

Si apre il sipario, e la scena che si schiude davanti a noi è quella del Gòlgota, dove Gesù insieme ad altre due persone, è crocifisso. Presso la croce si trova la madre di Gesù e la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala; accanto a Maria c'è anche il discepolo amato da Gesù. Anzitutto, è importante quello "stare presso la croce"; in questa frase sono nascosti due aspetti: primo, che bisogna stare «accanto alla croce » e, secondo, che bisogna stare accanto alla croce di Gesù. In altre parole, non basta stare presso la croce, cioè nella sofferenza, la cosa decisiva è stare presso la croce di Gesù. È qui la fonte di tutta la forza e la fecondità della Chiesa. La forza della Chiesa viene dal predicare la croce di Gesù, cioè da qualcosa che agli occhi del mondo è il simbolo stesso della stoltezza e della debolezza. La vita intera del cristiano deve essere un dono vivente, come quella di Cristo; non si tratta solo di sofferenza accettata passivamente, ma anche di sofferenza attiva, vissuta in unione con Cristo, aperta alla speranza e in solidarietà con i crocifissi di oggi: gli impoveriti, gli umiliati, i diseredati e "messi fuori dal sistema" (EG 53). Oggi più che mai, in tempo di pandemia, la Chiesa, sull'esempio di Maria, è chiamata a essere segno di speranza, proclamando che la sofferenza non è assurda, ma ha un senso, perché Dio stesso ha assunto il dolore di tanti, soprattutto di coloro che sono vittime dell'ingordigia umana. Voglio ricordare, in particolare, coloro che sono morti a causa del covid-19 nei 2 Paesi in cui le autorità si sono distinte per la loro negligenza e indifferenza:

  • le ormai più di 101 mila persone morte negli Stati Uniti, di cui almeno 6 persone su 10 erano afroamericane e immigrati latini;
  • le quasi 27 mila persone morte in Brasile, di cui almeno 7 su 10 vivevano nelle favelas.

C'è poi il dono di Gesù: a Maria, perché continui a esercitare la sua maternità, e al discepolo amato, che rappresenta tutti noi, perché, accogliendo Maria come sua madre spirituale, viva la comunione fraterna con Gesù. A sua volta, la Chiesa è chiamata ad essere madre, a prendersi cura dei più poveri e abbandonati della società. L'immagine della Chiesa come "ospedale da campo", che accoglie quanti si ritrovano feriti o delusi dalla vita, è stata una costante nella sua storia bimillenaria.

La sete di Gesù (Gv 19,28)

Risuonano le parole di Gesù crocifisso: "Ho sete!". La sete, ancor più della fame, è il bisogno estremo dell'essere umano, ma ne rappresenta anche l'estrema miseria. Ma di che cosa ha sete Gesù?...ha sete d'amore! Egli dona tutto se stesso per amore, mentre noi, amati da lui alla follia, rispondiamo dandogli aceto, che è vino andato a male. Nel suo "ho sete" possiamo, inoltre, sentire la voce degli "scartati" di oggi, il grido di quanti sono stati resi piccoli in questo mondo; soprattutto, è il grido di coloro, e sono tanti, che invocano la pace;  sono le vittime delle tante guerre che inquinano i popoli di odio e la terra di armi letali; sono i nostri fratelli e sorelle che vivono sotto continui bombardamenti, costretti, quanti riescono a sopravvivere, a lasciare la loro casa e a migrare verso terre sconosciute, spogliati di ogni cosa; sono loro che oggi hanno sete, sete di giustizia, di pace, di amore....ma chi li ascolta?...chi si preoccupa di loro?...quanta indifferenza, quanto egoismo, quanto menefreghismo!!! La macrocultura in cui viviamo e ci muoviamo ha come caratteristica principale il competere e non il cooperare; il sistema capitalistico è un sistema fortemente competitivo, fondato sull'accumulo delle ricchezze, fino al punto che l'1% dell' umanità possiede più del 99%. Recentemente la OXFAM ha dichiarato che 85 persone nel mondo hanno entrate economiche molto più grandi della metà della popolazione mondiale; e che attualmente 8 persone hanno ricchezze pari a quelle possedute da 4 miliardi di persone nel mondo. Tutto questo è il risultato di una enorme ingiustizia sociale, e che la fame, l'emarginazione e la violenza non sono altro che la manifestazione di questa realtà iniqua.

Qualcuno ha detto che il male cresce nel mondo per mancanza di empatia; io rincarerei la dose, e parlerei piuttosto di mancanza di compassione, come atteggiamento etico di chi si prende cura degli altri; e prendersi cura non è solo una delle tante virtù che l'essere umano è chiamato a sviluppare, ma è l'essenza della vita stessa, è la logica interna dell'intero universo, è la logica più profonda ed essenziale dell'essere umano che si oppone energicamente all'indifferenza, tanto presente ai nostri tempi. Il grande filosofo Martin Hidegger ha affermato che l'essenza dell'essere umano non è l'intelligenza o la creatività, e neanche la libertà, ma la sua capacità di prendersi cura.

Antoine de Saint-Exupéry, in un suo scritto del 1943 intitolato "Lettera al generale "X" , afferma con grande enfasi: " l'essere umano si è preoccupato di curare il suo corpo e la sua psiche, però no si è preso cura della vita dello spirito. Per questa ragione ci sono tante guerre in atto che stanno uccidendo a milioni di persone. La vita che coltiva la sua dimensione spirituale è fatta di compassione, solidarietà, amore, donazione e desiderio di Dio. Ecco perche siamo violenti e ci troviamo a guerreggiare; e se non coltiviamo la vita dello spirito la nostra umanità non avrà futuro".

Gesù consegna lo Spirito (Gv 19,30)

Gesù sulla croce è morto, ma in nessun vangelo si trova l'espressione "Gesù morì"; la morte non cessa la vita, e quella di Gesù è l'affermazione di una vita compiuta, realizzata; per questo è capace di consegnare e comunicare lo Spirito alla piccola comunità nata presso la croce e che da lì a poco invaderà tutto il mondo. Questa stasera, molte comunità cristiane si riuniranno, magari in piccoli gruppi, per via del covid-19, e rimarranno tutta la notte in preghiera, invocando la presenza dello Spirito in questo nostro mondo; anche noi vogliamo unirci a tutti loro e pregare per una rinnovata pentecoste, capace di smuovere dal torpore e di entusiasmare il cuore di ogni cristian@.

Il costato trafitto (Gv 19,33-34)

Giovanni mette in risalto il gesto del soldato che in questo vangelo assume un significato simbolico straordinario, racchiuso nell'espressione "sangue ed acqua". Il sangue rappresenta l'intera vita di Gesù vissuta nell'obbedienza filiale al Padre e nell'amore salvifico per l'umanità; l'acqua che sgorga dal suo costato, invece, è simbolo dell'effusione e del dono dello Spirito.

Veracità della testimonianza (Gv 19,35-37)

Giovanni chiama in causa la Scrittura attraverso due testi dell'Antico Testamento:

  • "non gli sarà spezzato alcun osso": questa è una citazione che proviene dal rituale della Pasqua ebraica, in cui si accenna a come dovrà essere preparato l'agnello (Es 12,46); all'utilizzare questa citazione, l'evangelista dichiara che Gesù è il vero agnello pasquale immolato, è lui che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29);
  • "volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto": questa citazione è presa dal profeta Zaccaria, dove Dio presenta la salvezza del popolo legata alla sofferenza di un giusto perseguitato (Zc 12,10). La frase è al futuro, ed esprime il desiderio del discepolo, che per primo ha visto e che ora ne da testimonianza, affinché tutti possiamo accogliere la sua esperienza di fede e aderire con la nostra vita a colui che è stato trafitto, Gesù il Figlio di Dio.

A questo proposito, permettetemi un accenno al Comboni e alla sua adesione totale a Gesù Cristo.

Missione e croce nell’esperienza di Comboni

Comboni visse la sua chiamata all’insegna della Croce, affrontando le sofferenze, gli ostacoli e le incomprensioni nella convinzione che le opere di Dio devono nascere e crescere appiè del Calvario”. Egli, però, non era “un fanatico della croce”, uno che amava soffrire per soffrire; credeva nella croce “evangelica” e non nelle croci “provocate dalla nostra imprudenza” (S 3136). Comboni non cercava croci inutili, ma sapeva che mettersi al servizio di Dio per la missione significava trovare opposizioni, incomprensioni, scoraggiamenti, ostacoli. Si può dire che Comboni ragionava così: 'se per realizzare la missione dell’Africa Centrale devo passare per “valli oscure”, se per amare la missione devo portare mille croci, benvenuta sia qualsiasi croce. Ciò che mi sta a cuore è la missione. Non mi spaventano le croci, se queste sono l’unico cammino per arrivare a realizzare quell’opera che Dio mi ha ispirato'. Un mese prima della sua morte, scrisse: “Sono in grandi tribolazioni, perché così vuole Gesù Cristo. (…) Che croce per un Vescovo Missionario! Ma se potessimo vedere il perché così Dio opera, dovremmo lodarlo e benedirlo” (S 3173-3174).

La mattina di Pasqua (Gv 20,11-18)

Giovanni ci racconta a modo suo quella mattina che ha cambiato per sempre la storia dell'umanità; da quell'alba del primo giorno dopo il sabato, ogni luogo in cui la vita è oppressa, ogni spazio in cui domina la violenza,la guerra, la miseria, là dove l'essere umano è umiliato e calpestato nella sua dignità, in quel luogo può ancora riaccendersi una speranza di vita, perché Gesù è risorto, ha vinto la morte, essa non ha più potere su di lui. Ciò però richiede non solo aver visto la pietra rotolata, il sepolcro vuoto e il lenzuolo piegato con cura; più importante ancora è che dai segni visibili dell'assenza di Gesù si passi alla sua presenza viva. L'evangelista lo fa presentandoci l'esperienza personale di Maria di Màgdala.

Il pianto di Maria: là, vicino al sepolcro, Maria è in lacrime, espressione del suo attaccamento a Gesù: piange colui che ama, piange molto chi ama molto! Maria però piange Gesù perché lo ritiene morto e perché il suo corpo è scomparso: avrebbe desiderato vegliarlo e stare accanto a quel corpo morto, magari cantandogli canti di afflizione. Ma Gesù è vivo, e la prima cosa che vede quel mattino, nel giardino di Pasqua, sono le lacrime di Maria. Che commovente: Gesù, il Dio della vita, si interessa delle sue lacrime!

...e chissà, poi, con quanta tenerezza le avrà chiesto: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?" (Gv 20,15). Tutti noi, Maria come ogni discepol@, dobbiamo rispondere a questa domanda fondamentale posta da Gesù e chiarire a noi stessi: che cosa cerchiamo realmente nella vita?... In realtà, quanto più ci avviciniamo al senso ultimo delle cose, non ha più importanza la ricerca di un corpo morto, di una realtà che scivola via; si tratta invece di sapere chi realmente cerchiamo, chi veramente può acquietare la nostra ricerca spesso affannosa.

L'incontro genera identità: Giovanni ci dice che Maria riconosce e fa esperienza del Signore risorto al sentire pronunciato il suo nome "Mariam"(in aramaico), con familiarità, con tenerezza, con amore. L’esperienza della fede è sapere che il Signore è qui per me; se lui pronuncia il mio nome è per il fatto che lui è qui per me, a causa dell’amore che lui ha per me. Questo è quello che io ricevo quando sento pronunciare il mio nome con amore; quella relazione che mi costituisce e mi fa essere quello che sono. E io sono qui per lui! Così, la fede è questa relazione intima, perché è lui a chiamarmi per nome; ed è quel nome nuovo pronunciato dalla bocca del Signore, che solo lui conosce e rivela a me. Maria risponderà "Rabbunì" che in aramaico significa non solo maestro, ma anche e in questo caso soprattutto, sposo.

Maria diventa così l'immagine della chiesa, la sposa che ha trovato l'amato del suo cuore!

Quando invece il nostro nome è confuso, incerto, e non sappiamo veramente chi siamo e a chi apparteniamo, ecco allora che la nostra vita diventa una minaccia per noi e per gli altri; altrimenti, come potremmo spiegare quanto avviene oggi nel mondo? Come spiegare, per esempio, la pazzia del guerreggiare? La corsa agli armamenti è in continua espansione; il giornalista Manlio Dinucci l'ha definita "la pandemia della spesa militare". In effetti, secondo il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), ogni minuto si spendono nel mondo circa 4 milioni di dollari a scopo militare; nel 2019 la spesa militare mondiale ha quasi raggiunto i 2.000 miliardi di dollari, il più alto livello dal 1988. In tutto questo l'Italia non è rimasta certamente a guardare; investendo qualcosa come 26,8 miliardi di dollari nel 2019 - un 6% in più rispetto all'anno anteriore - si è guadagnato un posto importante nel programma militare spaziale della Nato, creato dagli Stati Uniti per "difendere i vitali interessi americani nello spazio, il prossimo campo di combattimento della guerra" (cfr. il manifesto, 5 maggio 2020).

Papa Francesco ha recentemente ricordato ai governanti di tutto il mondo che l'industria della guerra è la più grande struttura di peccato; essa è contraria alla costruzione di relazioni nuove basate sulla logica della fratellanza universale, annunciata e praticata da Gesù fino alla morte e la morte in croce. Solo in Siria, dall'inizio della guerra civile si contano più di mezzo milioni di morti.

La discepola della Buona Notizia (Gv 20,17)

Il Cantico dei Cantici dice: “Ho trovato l’amato del mio cuore, ora lo stringo, non lo lascio più scappare..." (Ct 3,4); ma Gesù dice a Maria: “Non mi trattenere!”, perché questo è solo l’anticipo di quello che sarà, dopo questo incontro. Tu devi fare un’altra cosa ora – sembra che Gesù la mandi via – e Gesù dice: “Non sono salito al Padre”. Per sé, la salita al Padre di Gesù comincia fin dall’inizio del Vangelo. Tutto il cammino di Gesù è la salita al Padre e sulla Croce si compie la salita. Gesù le dice: “va’ dai miei fratelli”. Lo diceva a Maria di Màgdala, ma oggi lo ripete a te:

Se tu mi hai incontrato e hai conosciuto il mio amore, vai dai fratelli!

Ciò che è importante adesso è la missione. Così, Maria diventa la prima apostola, con buona pace degli apostoli uomini! Su incarico diretto di Gesù: “Va’ dai miei fratelli” (da notare che è l'unica volta che Gesù chiama i discepoli suoi fratelli); a loro la Maddalena deve annunciare, “salgo al Padre mio”. Gesù ha chiamato Dio Padre mio, che poi deve anche diventare Padre nostro; e in effetti, Dio è già Padre nostro, perché Gesù si è fatto nostro fratello, anche se essi ancora non lo sanno.

Ecco che allora tu, andando dai fratelli e sorelle, fai sì che loro scoprano che Dio è Padre di tutti!

"Ho visto il Signore" (Gv 20,18)

Maria è la prima che vede il Signore Risorto e che va ad annunciarlo agli Apostoli, quindi è l’Apostola degli Apostoli, la super-apostola, quella che dà l’annuncio ai discepoli. E lei annuncia ai discepoli: “Ho visto il Signore”. In greco c’è il perfetto che vuol dire: “Ho visto e continuo a vedere”, perché una volta che l’hai visto, l’hai visto! Non è “vidi”, e basta! Ormai questo che “ha visto” trasforma la sua vita; Maria è pronta per l'annuncio, perché ha capito di essere amata.

Liberandosi dall'amore come possesso ha abbracciato l'amore come dono.

Domande per la riflessione:

  1. Cosa o chi cerco veramente nella mia vita?...di che cosa ha sete la mia vita?...
  2. Ho incrociato Gesù risorto nella mia vita?... Ce lo racconti?
  3. Mi sono sentit@ chiamat@ per nome da Gesù?... Ci racconti la tua esperienza?
  4. Come posso essere discepol@ missionari@ nella mia vita quotidiana?

 

    P. Antonio D'Agostino, mccj

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